Title | : | La mutazione: Come le idee di sinistra sono migrate a destra |
Author | : | |
Rating | : | |
ISBN | : | - |
Language | : | Italian |
Format Type | : | Kindle Edition |
Number of Pages | : | 256 |
Publication | : | First published November 1, 2022 |
La mutazione: Come le idee di sinistra sono migrate a destra Reviews
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L'autore non è certo uno sprovveduto, e la sa lunga sull'analisi della società (del resto è il suo mestiere). Riporta ampie citazioni e soprattutto dati, e per questo su una cosa ha dannatamente ragione, ovvero che nel corso dei decennî recenti c'è stato, un po' in tutti i paesi sviluppati, questo scambio (lui lo chiama swap) nell'elettorato di riferimento tra sinistra e destra, ma che in fondo è un po' segreto di Pulcinella: ora la sinistra raccoglie i proprî voti tra i ceti urbanizzati e più istruiti, gli elettori che hanno maggiori garanzie nell'àmbito lavorativo (ad esempio nell'esercito dei lavoratori statali) e che sono quindi soprattutto interessati a battaglie di tipo culturale (segnatamente quelle sui diritti civili), mentre la destra ora fa riferimento ai cosiddetti "perdenti della globalizzazione", chi si è visto precarizzare la posizione lavorativa, per le delocalizzazioni o anche (ma non solo) per il massiccio arrivo di persone migranti.
La destra, dunque, attualmente difenderebbe quei deboli che un tempo erano difesi dalla sinistra. Ma (e questa è la prima critica che muovo) verrebbe da chiedersi in che modo la destra li difenda, perché a me sembra che le ricette delle destre un po' dappertutto non stiano tanto nella difesa dello stato sociale o delle tutele sul posto di lavoro (cavalli di battaglia tipici della sinistra, questi), ma nel protezionismo economico, nell'abbassamento delle tasse, e soprattutto nella volontà di rendere il più possibile difficile la vita ai migranti. Insomma, se la destra ha certamente intercettato l'elettorato che un tempo era bacino di voti a sinistra, non mi sembra che in questo caso le idee della sinistra siano migrate a destra, come sosterrebbe il sottotitolo del libro.
Altre critiche rivolgerei a tutto il capitolo su libertà d'espressione, politiche del linguaggio e politicamente corretto, forse perché è un tema che seguo da vicino e con molta attenzione.
Diciamo che qui l'autore a volte rischia di sembrare un po' il tipico vecchio che si lamenta dei tempi che passano e che si scandalizza per novità incomprensibili alle generazioni passate e frettolosamente etichettate come "folli" (ma dove andremo a finire con queste persone che non si sentono né uomini né donne?). Non perché il politicamente corretto non sia un flagello (lo è), ma perché l'autore opera una distinzione tipica di certo pensiero conservatore tra linguaggio del popolo, definito "naturale", quello che si usava fino all'altro ieri e che oggi sarebbe a rischio di cancellazione a spese di un linguaggio che si vuole calato dall'alto, una cosiddetta artificiosa antilingua (il termine usato dall'autore è proprio questo). E invece tutte le forme di linguaggio sono convenzionali, quelle vecchie e quelle nuove, quelle delle classi popolari e quello delle elite intellettuali, quelle percepite come "naturali" (solo perché in uso da tempo) e quelle percepite come "artificiali" (solo perché nuove).
Per me il problema del politicamente corretto, e questo il libro fallisce nell'individuarlo, non sta nel proliferare di nuove forme linguistiche o grammaticali (gli eufemismi per le categorie ritenute svantaggiate, gli asterischi, gli schwa, i pronomi per chi non è o non si sente né maschio né femmina, ecc.), che anzi nel loro anarchico ribollire potrebbero essere qualcosa di creativo e innovativo, che cerca di afferrare e dar voce a una realtà in tumultuoso mutamento plurale (ad es. col venire alla luce di tutte le minoranze sessuali e/o di genere). Il problema semmai è quando la politica del linguaggio si fa imposizione, coercizione, specie tramite la legge, quando si vuole comandare a tutti cosa dire e come dirlo, prospettando l'ostracismo se non la condanna in tribunale per chi non si adegua. Il problema non è chi usa lo schwa per esprimere meglio ciò che pensa, ma chi ritiene che anche tutti gli altri debbano essere obbligati a usarlo, pena l'accusa di essere offensivi e oppressivi, dei mostri insensibili e da eliminare con ogni mezzo.
Tolte queste precisazioni, l'autore ha comunque piena ragione a stigmatizzare il progressivo scivolare, di decennio in decennio, della parte più a sinistra dell'arco politico, in una deriva censoria sempre più cieca e aggressiva. Ma a questa disanima mancano due cose. Se è vero che sino alla fine degli Settanta l'attivismo contro la censura e per la libertà di esprimersi, specialmente nel Mondo delle arti, era appannaggio della sinistra, attivismo che poi s'è perso e in parte ribaltato nel suo contrario, è anche vero che i semi di quest'ansia di controllo sulla parola e sul pensiero sono comunque contenuti anche in parte della stessa sinistra storicamente intesa, sin dalle sue origini, sin da quando la sinistra si proponeva di leggere l'intero sistema sociale come un tutto interconnesso in maniera semplicistica, in cui le forme del pensiero e delle idee vengono definite come ideologia che rispecchia rapporti ineludibilmente oppressivi, un sistema da ribaltare completamente, ovvero da controllare sin nei suoi angoli più riposti una volta ottenuto il potere politico. Lo stalinismo, il maoismo o la rivoluzione culturale cinese (con tutte le curiose affinità che quest'ultima ha con le dinamiche della cancel culture degli ultimi anni) non nascono per caso e non nascono certo a destra.
Ma si può dire anche di più. Dopo aver registrato che buona parte della sinistra ha abbandonato la difesa della libertà d'espressione, l'autore si chiede se la destra non stia per far sua questa battaglia, per appropriarsene. In questo caso almeno si può dire che un'idea di sinistra sia migrata o stia per migrare a destra? A me, specie guardando all'estero, non sembra proprio. In Germania la NetzDG, legge del 2017, che limita fortemente la libertà d'espressione in rete per combattere i cosiddetti "discorsi d'odio" e le "fake news" (tutti cavalli di battaglia nominalmente di sinistra), è stata promulgata dal governo conservatore di Angela Merkel. Nel Regno Unito è in corso di approvazione l'Online Safety Bill, legge ancora più oppressiva sulla libertà d'espressione in rete, legge da alcuni definita di stampo "cinese", e anch'essa frutto di un governo conservatore. Negli Stati Uniti sono all'ordine del giorno i tentativi del Partito Repubblicano, di destra, di ostacolare il più possibile quella che viene chiamata "propaganda delle minoranze LGBT", con la continua estromissione di libri nelle biblioteche scolastiche o, in Florida con la legge definita "Don't say gay", che vieta di parlare nelle scuole delle tematiche LGBT o sull'orientamento di genere.
Insomma, a me non sembra affatto che la destra si sia intestata una qualche difesa della libertà d'espressione, ma solo che entrambe le parti, destra e sinistra, tendano (e questo forse è ancor più preoccupante) a usare il potere politico, non appena ci mettono le mani sopra, per silenziare i proprî avversarî e porre sotto controllo la produzione intellettuale e culturale e il dibattito sociale o politico su determinate tematiche, anche se con intenti opposti.
Altre due cose.
L'autore afferma che la sinistra moderna si sarebbe messa al servizio dell'individualismo e sarebbe inoltre accecata da una fiducia nel progresso che le impedisce di vedere i guasti della globalizzazione.
Sinistra al servizio dell'individualismo? Magari! In realtà il politicamente corretto che l'autore (in gran parte giustamente) depreca, specie nelle sue forme più aggressive ed estreme, non è affatto individualismo, ma è anzi pura politica dell'identità dove identità significa identità collettiva, per cui l'individuo conta soprattutto in base al gruppo a cui appartiene: tu non conti per quello che fai, ma perché sei donna, perché sei nero (o di qualche altre minoranza etnica), perché sei omosessuale, e così via. È da qui che derivano le richieste di quote obbligatorie nella politica, nelle professioni e nei prodotti dell'immaginario, da qui l'idea che un personaggio di un film appartenente al gruppo X debba essere interpretato da un attore di quello stesso gruppo sennò è anatema, da qui l'idea che solo gli appartenenti a un determinato gruppo (donne, minoranze etniche e sessuali, ecc.) possano capire la propria condizione perché i gruppi sarebbero concettualmente impermeabili. Insomma, secondo il politicamente corretto le peculiarità individuali vengono dopo il gruppo di appartenenza, che ha la preminenza su tutto. E questo, se vivessimo davvero in un trionfo compiuto dell'individualismo non sarebbe nemmeno concepibile.
Questo atteggiamento si lega al rapporto ambiguo che la sinistra attuale coltiva col progresso (e con la globalizzazione). Difatti blandire l'identità di gruppo, specie quando entrano in gioco i rapporti tra paesi sviluppati e paesi ancora fortemente legati alle culture tradizionali, provoca dei curiosi cortocircuiti per cui la sinistra si trova a difendere posizioni che, in quei paesi, sono sostanzialmente di destra, e neanche moderata, posizioni che, se fossero assunte nei nostri paesi, sarebbero bollate come reazionarie e integraliste. Si veda ad esempio tutto lo spinoso dibattito riguardo all'Islam, in cui la sinistra finisce lacerata nel rapportarsi a tradizioni culturali e religiose di paesi che fino all'altro giorno hanno subìto il colonialismo e ancora oggi si trovano in posizione di subordinazione economica e politica (e quindi sarebbero oppressi da difendere), ma che al contempo esibiscono una concezione della società che, per la sinistra stessa, risulta altamente imbarazzante da difendere (si pensi solo alla concezione della donna in determinati paesi islamici).
E infine, sul progresso. Davvero la sinistra attuale lo sostiene? A me sembra che l'idea di progresso sia in gravissima crisi nell'intera società. Ma è anche e soprattutto in buona parte della sinistra che si possono sentire i continui elogi di un passato che verrebbe distrutto dal consumismo cattivo (insomma, come affermava l'ultimo Pasolini), gli elogi della vita contadina, della genuinità di un passato immaginario, della naturalità del cibo, dell'autenticità dei piccoli paesi in cui c'erano comunità e solidarietà contrapposte a un presente atomizzato e feroce, della difesa delle culture ancestrali dei paesi non industrializzati che rischiano di venir travolte dalla globalizzazione. Sono tutte, queste, idee che fino a un tot di decennî fa erano in buona parte proprietà della destra più radicale (l'elogio della tradizione, dell'autenticità, della naturalità e l'ostilità al progresso tecnologico se non all'intera modernità), ma che ora sono migrate in molta parte della sinistra. Insomma, in questo caso la migrazione è avvenuta da destra a sinistra e non viceversa.
Se il libro presenta quindi diversi spunti di riflessione e parte con delle buone basi di dati, si fa un po' prendere la mano da una teoria di fondo molto netta (la destra e la sinistra si sono invertite i ruoli?), troppo netta, e che finisce per sacrificare le molte ambiguità e complessità di un tempo presente in mutazione e forse proprio per questo così difficile da decifrare (sempre che dei tempi facili da decifrare siano mai esistiti). -
La tesi del libro è che la sinistra abbia perso tre suoi grandi valori: la difesa dei deboli, la libertà di espressione e l'uguaglianza (o emancipazione) attraverso la cultura. I primi due valori si sarebbero spostati a destra, mentre il terzo non è più rappresentato da nessuno.
(Già su questo ho le mie perplessità: non mi sembra che la libertà di espressione sia mai stato un valore importante, per la "sinistra ufficiale" - termine usato dall'autore. Nella parte ad essa dedicata, si capisce che in realtà si riferisce agli artisti e intellettuali di sinistra che negli anni Cinquanta e Sessanta erano contro la censura.... solo che erano contro la censura mica perché erano di sinistra, ma perché erano loro i censurati!)
Nella prima parte, sulla difesa dei deboli, in realtà si chiarisce che intende i deboli nel senso di quelli con difficoltà economica, purché italiani (l'autore sembra non gradire che la sinistra si occupi degli immigrati).
E' interessante la sua divisione in tre "società" (i garantiti, i non garantiti e gli esclusi), ed è oggettivo che le fasce più povere o comunque più disagiate in senso economico non votino più a sinistra. Secondo Ricolfi, la sinistra ha abbandonato i diritti sociali, per occuparsi solo di diritti civili e di immigrati, inoltre non prende sul serio i problemi di parte della popolazione.
La trovo un'analisi tutto sommato corretta, anche se superficiale. In ogni caso, in questa parte non dice nulla che io non sapessi già e non propone soluzioni.
Secondo lui, comunque, sostanzialmente è colpa della globalizzazione e del libero mercato, che la sinistra avrebbe accettato acriticamente.
La seconda parte, sulla libertà di espressione, è in realtà incentrata sul politicamente corretto (che comunque è un problema principalmente americano).
Credo sia la parte più inutile del libro, le sue opinioni contro il politicamente corretto (che io in parte condivido) sono le solite che si possono sentire ovunque, non c'è nulla di illuminante o originale, non c'è un modo diverso di vedere la questione.
E in ogni caso, è una conseguenza della sinistra che ha abbracciato con entusiasmo la globalizzazione e il libero mercato.
E' la terza parte, quella sull'uguaglianza attraverso la cultura, ad essere la più interessante, per me,.
Sostanzialmente, Ricolfi dice che il PCI di Togliatti aveva l'idea della cultura "alta" (quindi non quella di massa), in particolare quella umanistica, come strumento importante per elevare la classe operaia.
Però, dal 1962 in poi, questo concetto è stato svilito, e al contrario si è puntato su un appiattimento della cultura, si è facilitato l'ottenimento del diploma diminuendo la qualità dell'istruzione, ecc.
Ho trovato degli spunti interessanti, ma anche varie sciocchezze (tipo il paragone tra l'egemonia culturale del fascismo durante il Ventennio, e la presunta egemonia culturale della sinistra nei primi decenni della Repubblica) e a volte un atteggiamento davvero da vecchio trombone.
Arriva comunque alla conclusione che la colpa sia che alla sinistra piace la globalizzazione e il libero mercato.
Ho il vago sospetto che Ricolfi non sia un fan della globalizzazione e del libero mercato.
(Che poi, la sinistra ha davvero abbracciato con entusiasmo il capitalismo, la globalizzazione, il libero mercato? Mah)
Trovo che questo libro sia davvero troppo superficiale e impreciso, a tratti contradditorio, manca uno sforzo vero di analisi e riflessione sulla sinistra degli ultimi decenni, ha delle sue idee preconcette e descrive il mondo sulla base di quelle, ignorando eventi e situazioni che non vanno in quella direzione da lui immaginata.
Credo che il vizio di fondo del libro sia questo: Ricolfi è di destra. Lui pensa di star scrivendo un saggio sui valori della sinistra che si sono spostati a destra, ma la realtà è che ha scritto un libro per giustificare il SUO spostamento a destra.
Dico questo perché lui parte da un concetto giusto (a mio parere), cioè la sinistra che non riesce a rappresentare certe fasce di popolazione, ma lo affronta con un approccio reazionario e conservatore, che non ha senso per la sinistra.
La sinistra non può essere reazionaria e conservatrice perché lo è già la destra, e su quel terreno è impossibile competere, la sinistra è destinata a perdere.
La soluzione, quindi, non può essere diventare reazionari e guardare al passato, ma semmai cercare di portare anche quelle fasce di popolazione verso il "futuro", in primis iniziando a prenderle sul serio.
E' difficile, ma sempre meglio che cercare di fare la gara con la destra a chi è più tradizionalista e nostalgico, mentre il mondo va avanti, che piaccia o meno. -
Un saggio onesto e ben argomentato, ricco di citazioni a supporto delle proprie tesi,
che si interroga sui mutamenti sociali e politici degli ultimi tempi in Italia, ma anche nel resto del mondo occidentale, con un ampio respiro storico che permette di cogliere i momenti salienti della "Mutazione" della scala dei valori - primo fra tutti la difesa dei più deboli - che una volta erano propri della Sinistra ufficiale e che una adesione ottimistica - e acritica - alla Globalizzazione ha definitivamente allontanato dall'orizzonte culturale di questa parte politica.
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Sintesi efficace delle contraddizioni alla base della crisi della rappresentanza politica.
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Dubito fortemente che si possano elevare le classi basse propinandogli le lingue morte. In ogni caso, altra puntuale critica di Ricolfi a quella specie di immondizia ideologica che va sotto il nome di "centro sinistra" o "liberal".
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Io che non scelgo mai di leggere libri a tema politico, questo libro per me è stato davvero illuminante.
Scritto molto bene