Title | : | Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo |
Author | : | |
Rating | : | |
ISBN | : | 8858439740 |
ISBN-10 | : | 9788858439746 |
Language | : | Italian |
Format Type | : | ebook |
Number of Pages | : | 69 |
Publication | : | First published May 24, 2022 |
Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo Reviews
-
Un linguista dice che lo schwa non è linguisticamente corretto. Sconvolgente rivelazione del 2022, condita da errori marchiani (lo schwa per le wachowski?) che rivelano una scarsissima informazione su una società sulla quale tuttavia si permette di pontificare, quando non la dileggia apertamente. Non si offrono soluzioni, la lingua è quella e attacchiamoci al tram.
Quantomeno, a parte alcuni scivoloni, mantiene un tono un po' più serio e una riflessione che, quando è nel suo ambito, quello linguistico, funziona. Il problema è che, appunto, va altrove, e ci va alla cieca.
Il dibattito sullo schwa sarà ricco e fertile solo quando chi non è a favore sarà in grado di prendere sul serio chi lo è (e viceversa, certo, però diciamo che spesso e volentieri la disinformazione va in un unico verso). -
Una lettura illuminante, quella offerta dal breve e recente saggio del giornalista e linguista torinese Andrea De Benedetti, che ha insegnato lingua e linguistica italiana all’estero e attualmente è docente di lettere in un liceo della sua città.
Se il titolo suona curioso, il sottotitolo è altamente esplicativo in merito al contenuto della pubblicazione in questione: “Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo”. Mi sono imbattuta per puro caso in questo volumetto, mentre curiosavo tra gli scaffali di una biblioteca comunale. Pur avendo già intravisto en passant il simbolo dello schwa ⟨ə⟩ su qualche vecchio numero della rivista L’Espresso, non sapevo niente (da lungo tempo mi privo ben volentieri di guardare la televisione) dell’acceso dibattito di questi ultimi anni intorno al cosiddetto linguaggio inclusivo e, pertanto, alla funzione dello schwa, segno grafico dal suono neutro che conoscevo dal mio corso di glottologia all’università. L’autore espone la questione in modo chiaro ed esaustivo, spiegando come lo schwa non abbia poi così tanti vantaggi, al contrario di quanto sostengono coloro che vengono definiti “sì-schwa”, e come un’attenta analisi costi-benefici non propenda a favore dei secondi; il rischio, anzi, è quello di creare situazioni paradossali, nonché di sottolineare pubblicamente a seconda dei casi proprio quella diversità che dovrebbe appartenere soltanto alla sfera privata.
Personalmente, in tutto questo gran discutere mi sembra si parli solo di aria fritta e da donna – mi dispiace se il mio pensiero non apparirà allineato al cosiddetto politically correct – non mi sento per niente esclusa o discriminata quando, nell’ambito di discorsi generali sia a livello formale che informale, sento (o leggo) parole che risultano apparentemente al maschile poiché so bene che si tratta del ricorso al maschile non marcato, comprensivo cioè di femminile e maschile al tempo stesso, così come so altrettanto bene che il primo e principale significato della parola “uomo” non è quello di essere umano di sesso maschile (i cari vecchi vocabolari lo testimoniano).
Al contrario, mi sento infastidita nel veder prendere sempre più piede questa moda, seppur sostenuta da alcuni intellettuali e sociolinguisti, di sostituire le desinenze di sostantivi, aggettivi, pronomi con lo schwa o addirittura con un asterisco; è l’ennesimo oltraggio senza vergogna alla lingua italiana già abbastanza maltrattata su più fronti! Né amo l’estremismo imperante di dover rendere per forza al femminile termini per uso tradizionalmente al maschile che, oltretutto, in italiano non suonano nemmeno tanto bene (preferirei vedere più donne sindaco e ministro invece che poche sindache e ministre nominate “tanto per”). Se si pensa di combattere sessismo, violenza di genere, mentalità patriarcale, discriminazioni sessuali a suon di schwa o di altre discutibili trovate grafiche, si vive di illusioni e senza aver inoltre preso atto della complessità della realtà sociolinguistica.
Inoltre, non posso fare a meno di sorridere perché molte delle persone che ora finiscono per ricorrere allo schwa, magari decantandone lodi e vantaggi presunti, e sostengono anche la declinazione in -a dei nomi di professione, sono le stesse che nel parlato (e – ahinoi! – persino nello scritto) utilizzano erroneamente il pronome maschile “gli” anche quando occorre usare quello femminile “le”, alla faccia dell’inclusività e del rispetto linguistico di genere!
Di notevole interesse, infine, il quinto e ultimo capitolo di questo libro, dedicato a quella che De Benedetti chiama “la dittatura dei significanti”. Dunque, lettura consigliatissima a tutti in generale e, in modo particolare, a chi, pensando di far bene e non escludere in nome del quieto vivere sociale, si sta adattando non solo all'utilizzo grafico dello schwa, ma anche a quello di parole ed espressioni (per esempio, diversamente abile, persone con disabilità visiva, di colore, etc.) che altro non sono se non “sillogismi che accreditano il pietismo e l’ortopedia linguistica come uniche soluzioni per includere l’altro, quando invece la questione dovrebbe essere risolta […] negoziando di volta in volta codici e ruoli tra liberi individui e, considerando sempre, insieme ai significanti (e alle legittime sensibilità degli individui) i significati, i contesti, le intenzioni. L’etica del discorso non può insomma ridursi a un’elemosina linguistica da concedere per spirito di carità a categorie più o meno discriminate […], ma sta nella possibilità di scegliere caso per caso cosa dire e come dirlo, nell’assunzione di responsabilità, da parte del parlante, rispetto alle istanze di chi ci sta di fronte (senza doverle necessariamente riconoscere in blocco)”. -
Un piccolo saggio che non coglie, secondo me, la problematica affrontata dalla introduzione della schwa. Rimane un trattato accademico con motivazioni linguistiche che non offre spiegazioni o alternative e sembra quasi considerare la lingua ferma e non mutevole.
Per quanto la schwa sia una "forzatura" e non sempre un percorso agibile (pensiamo alla lingua parlata), l'autore non offre alcuna soluzione al dato di fatto che la lingua italiana così come la conosciamo è fortemente incardinata sul genere, dimentica che esiste il mondo femminile (nascosto e sovrastato dal maschile generale) e dà per scontato che non ci si debba offendere se la lingua che parliamo e che ci descrive non ci comprende e non ci definisce. Il fatto che al momento non appaiano esserci soluzioni se non interventi drastici e forzati non significa che non ci si debba interrogare su soluzioni possibili e non accontentare di un linguaggio imperfetto e con dei limiti.
Essere un soggetto che non viene mai cancellato, mal definito e misgendered forse spiega perchè vi sia tanta propensione ad accettare lo status quo ed a trovarvi armonia. -
Un pamphlet che scivola scivola scivola giù in un battibaleno.
Varie le questioni che vengono presentate e conflittuale anche la mia posizione, come lettrice, che sull’uso della schwa ha sempre sentito un richiamo incompleto.
De Benedetti è bravo a ricordarci come una questione linguistica non possa essere punto di partenza e risoluzione dell’inclusività vera, quella che nella realtà ancora fatichiamo a palpare. Dove i diritti delle donne, della comunità lgbtq, la lotta al patriarcato etc… sono ancora nodi nevralgici.
Dal mio canto, ho sempre percepito l’uso di asterisco et similia come protesta, stimolo che i social potevano riportare su questioni molto più incresciose, che necessitavano di attenzione e mobilitazione.
In una visione più ampia, uscendo dalla comfort zone dell’influencer e di instagram, o dell’onda mainstream di qualche testata giornalistica, il linguaggio presenta complessità pratiche, obiettive, come De Benedetti illustra in più punti circa il parlato vs lo scritto, che non possono essere ignorate né è produttivo, come sottolinea (e grazie! Grazie per averlo sottolineato), che chi nutre dello scetticismo debba essere bollato come chiuso di mente, bigotto. Il confronto è un fuoco che va alimentato da pro e contro, da certi spigoli che è facile, per noi, smussare, altri invece restano pungenti.
E riporto allora poche, pochissime parole che mi colpiscono:
Questo non significa che le società non debbano in qualche modo dotarsi di regole morali per definire il perimetro di ciò che è linguisticamente tollerabile, ma occorre che questo perimetro sia negoziato e non diventi un labirinto di norme, mentre oggi, come sottolinea Raffaele Ventura: ‘mancano un consenso e una consapevolezza condivisi su queste regole, che sono sempre più numerose, fluttuanti e complesse da padroneggiare’. -
Essendo un pamphlet, risulta poco approfondito.
L'autore è contro l'uso dello schwa, ma non offre soluzioni.
In soldoni, per lui la lingua non si può modificare e non risolve il problema dell'inclusività, non solo per quanto concerne il genere, ma anche su tematiche relative al femminismo, alla disabilità, all'orientamento sessuale, ecc.
Tuttavia, da qualche parte bisogna pur partire.
Secondo me (che sono ancora abbastanza ignorante in materia, ma ci sto lavorando) non è poi così impossibile apporre delle modifiche.
La lingua può e cambia sempre insieme a noi. È risaputo. -
"Meglio dunque stare zitti e aspettare che la febbre dello schwa faccia il suo corso. Nella speranza che, prima o poi, si torni a parlare d'altro."
Ah beh, se ce lo dice Andrea De Benedetti, linguista cis etero che nemmeno prende seriamente - anzi, non manca di sbeffeggiare - chi è a favore dello schwa, allora deve proprio avere ragione. Ho inutilmente sprecato 40 minuti della mia giornata. -
Una citazione dal libro che fa il giro e diventa anche la mia recensione:
"L'alibi perfetto per dissimulare quello che Giuseppe Faso definiva il «razzismo dei colti», cioè quell'atteggiamento misto di condiscendenza, paternalismo e malcelata superiorità di chi è disposto ad accogliere l'altro solo a patto che smetta di essere «altro»." -
La premessa è che il tema dell'inclusività del linguaggio e della rappresentatività di genere è uno di quegli argomenti che apre il vaso della discordia.
Qualunque cosa si dica/scriva diventa una presa di posizione che scontenta l'interlocutrice o l'interlocutore. Da quando si è aperta la discussione su sì schwa/no schwa ho provato a leggiucchiare qui e lì, per farmi un'opinione più chiara di che cosa vorrei, ma sono ben lontana dall'aver trovato una quadra.
Fatto questo doveroso cappello introduttivo, che cosa ne penso del libro di De Benedetti? Proverò, anche se con fatica, a spiegare perché il libro non mi ha convinto e quindi non mi è piaciuto.
De Benedetti si propone di difendere il filone dei no schwa. Per farlo spiega quali siano le ragioni che lui ritiene inoppugnabili per opporsi all'uso del simbolo della discordia. Se da un lato condivido le perplessità sull'uso (partendo dalle cose pratiche tipo come usare gli articoli e/o le preposizioni articolate), trovo che spesso i commenti dell'autore cadano nel semplicismo, anche se lui taccia della stessa colpa i sì schwa.
Manca tutta la riflessione, che De Benedetti liquida in due righe, sul fatto che l'uso del maschile sovraesteso penalizza ampia parte della popolazione (il famoso ciao a tutti in un gruppo di 9 donne e un uomo). De Benedetti la liquida praticamente come una paturnia e, questo mi fa tenerezza, anche perché per difendere le sue posizioni cita pressoché sempre libri/articoli ecc scritti da uomini.
Nel mio piccolo per anni mi sono definita, proprio per il maschile sovraesteso, istruttore o redattore a seconda dei contesti, quando a tutti gli effetti sono istruttrice e redattrice. Nessuno me l'ha mai imposto ma in fondo al cervello qualcosa si annida. Lavorare sulla rappresentatività è un lavoro enorme, ma proprio perché si prova a cambiare si notano tutte quelle contraddizioni che prima ci sembravano così innocue.
Non credo che lo schwa sia la soluzione a tutti i mali del mondo, né che il doppio "studenti e studentesse" sia sempre la soluzione. Ma il merito della discussione sullo schwa, sui femminili delle professioni e su come appellare un pubblico è proprio quello di spingerci a farci delle domande.
Lo so che lo schwa non risolverà le differenze di retribuzione, ma fermarsi a riflettere sugli aspetti linguistici ci obbliga a ragionare anche su tutto quello che nella vita di tutti i giorni ci stona.
Quindi forse non dirò tuttə ma un tutte e tutti al giorno non fa alcun male. -
Come argomentare con grazia, semplicità e zero spocchia.
Non siamo difronte ad un intellettuale abbarbicato alle proprie idee stantie, ma ad un linguista che si pone certe domande, soppesa la bontà delle tesi ed antitesi sul piatto e, con estrema naturalezza, fa inferire al lettore le conclusioni.
Un saggio lineare, con una ricca bibliografia che inviterei a leggere nelle scuole, per comprendere quali battaglie è giusto intraprendere e quali sono gli specchietti per le allodole, spesso usati a sproposito per accattivarsi un’utenza o dimostrare la propria altruistica inclusività: tecnica che io accomuno alla pratica di spazzare la polvere sotto il tappeto, giusto per ostentare una pulizia solo di nome e non di fatto (o per dirla con i termini linguistici più adatti: più di significante che di significato!). -
Un libro coraggioso, dati i tempi, e di certo spontaneo, perché pochi vorrebbero davvero mettersi sotto i riflettori con un argomento così divisivo.
De Benedetti non ha certo un approccio chiuso sul tema, ma non si lascia nemmeno andare a un entusiasmo immotivato. Dopotutto - come ricorda - la polemica sullo schwa, più che tradursi in un dibattito costruttivo e rispettoso, è stato assunto come strumento assoluto di liberazione, nascondendo il vero problema: la discriminazione de facto. Quella del quotidiano, dove solo la politica e l'attivismo possono intervenire per sensibilizzare su una forma mentis oggi ritenuta viziata. Quello dello schwa è insomma un dito che nasconde la Luna.
Si può sperimentare, certo, si può introdurlo, ma De Benedetti evidenzia alcune difficoltà, non solo nella pronuncia, ma persino nello scritto, dove chi lo impiega lo fa in (quasi) totale anarchia, poiché manca tanto una norma quanto una pratica condivisa dai parlanti/scriventi.
Una lettura non esaustiva, ma che ha il pregio di essere chiara e di proporre un confronto pacato e obiettivo. Aspetto che comunque non lo salverà dalle critiche di chi, proprio nel pensiero critico, non ammette obiezioni, tantomeno da chi non appartiene alle identità coinvolte. E così De Benedetti ammette sconfortato: meglio il silenzio. -
La mia personale opinione si colloca immancabilmente sulla medesima linea dell'opinione generale. L'opera del professor De Bendetti presenta un'analisi linguisticamente accurata del fenomeno preso in analisi, espondendo argomentazioni incontrovertibili sul rapporto costi-benefici. Tuttavia, il tutto si limita a ciò, non viene proposta alcuna soluzione per far fronte ad un fenomeno a sua detta eccessivamente oneroso per la lingua, limitarsi a porre in risalto le problematiche non porta alcun contributo tangibile, una lacuna che viene mascherata, senza successo alcuno, da un capitolo finale di pura polemica personale sul tema del politicamente corretto, una polemica sterile e fuori luogo che non colma la lacuna di quest'opera.
La questione è dunque molto più complessa di quanto presentato da quest'opera, e tentare di aggirare il problema con un, relativamente giustificato, conservatorismo linguistico altro non fa che accrescere l'idea di sterilità del movimento no-schwa, il quale potrà anche avere forti argomentazioni, ma queste si riducono a parole senza fatti nel momento in cui non sono affiancate da proposte tangibili. -
Alcuni spunti decisamente interessanti e obiezioni ben ponderate all'uso del linguaggio inclusivo.
Cerca di porsi come super partes con analisi costi-benefici e obiezioni ben documentate.
Eppure traspaiono un tono paternalistico e un'opinione anti-schwa che passano attraverso improvvise domande retoriche che, facendo finta di essere oggettive, esternano in realtà tutto il fastidio dell'autore sull'intera questione, che è poi il motivo per cui non vengono considerati nel libro *tutte* le opinioni dei "sì-schwa", prima fra tutte l'opinione -presentata come obiettiva ma in realtà facente parte del bias di De Benedetti- che il maschile non marcato neutralizzi le differenze di genere, dopo aver dimostrato invece nei capitoli precedenti quanto la mente delle persone pensi di più a uomini quando lo si utilizza. -
Una lettura scorrevole ricca di spunti (pro e contro) che fanno riflettere. Per me è stato un continuo sottolineare frasi che ritenevo significative! Inoltre, ci sono tanti riferimenti a potenziali libri da leggere per ampliare la propria conoscenza su questo e altri argomenti riguardanti il politicamente corretto.
-
Le premesse potevano anche essere buone, perché sappiamo benissimo che lo schwa non può risolvere tutti i problemi di discriminazione e disuguaglianza, ma lo sviluppo delle argomentazioni è a dir poco pessimo (se proprio vogliamo chiamarle argomentazioni...)
Tutta la critica di De Benedetti al linguaggio inclusivo si regge solo e soltanto sulla critica (becera e imbarazzate, se posso dire la mia) alle personalità che lo promuovono, e su slogan del tipo "salviamo la lingua italiana, minacciata da questi fanatici dell'uguaglianza!!1!1!".
Mai una volta viene fatta una controproposta per rendere il linguaggio più inclusivo per ogni individuo senza usare lo schwa o altri segni del genere, e alla fie il succo di tutto il discorso è "pigliatevi il maschile sovraesteso e non rompeteci i coglioni". -
Libello leggero e scorrevole sulla questione del momento, ancora limitata a circoli intellettuali molto ristretti, non colta dalla popolazione generale che dimostra insofferenza se non addirittura malcelato odio verso questa imposizione calata da élite radical chic.
Concordo col fatto che una lingua viva denota i propri cambiamenti a partire dalla lingua parlata, prima che dalla lingua scritta: al contempo è sempre bene rifarsi a ciò che stabilisce l’Accademia della Crusca sul corretto utilizzo della lingua italiana. -
il bro ha letto Alma Sabatini e ha detto: ok and? e ha letto anche le ricerche in cui si evidenzia come il maschile generico in realtà non includa le donna e ha ri-detto: ok?? lungi da me essere a favore della schwa (proprio per questi motivi) ma la sua conclusione è 'uff besties che fatica usare sia il maschile che il femminile uff 😔' - certo che bisogna cambiare la società per avere un reale cambiamento di significati, ma nel mentre che facciamo? e se il cambiamento concettuale possa derivare dall'inclusione femminile esplicita nel linguaggio?
-
Il fatto che la separazione tra significante e significato venga assunta rimarcando una prevalenza dell'uno sull'altro è forse il problema più grande di questo libro, che non lascia trasparire l' interconnessione tra i due e tende a sottovalutare o trascurare l'influenza del linguaggio nella formazione dei pensieri: in poche parole, è come se si considerassero strati separati ( pensiero/comportamento e linguaggio e significante e significato). Per il resto, sono ben spiegate le difficoltà dell' inserimento dello schwa nella morfologia del linguaggio e le complicazioni insite nella formulazione di una struttura comunicativa assolutamente inclusiva. La riflessione è interessante, l'alternativa proposta ( che non è un'alternativa) a favore del maschile non marcato può essere criticata ma ignorare i dilemmi posti è un insulto intellettuale. Ci sono scivoloni argomentativi ( come quando l'autore dice che parlanti di altre lingue che usano il neutro potrebbero trovarsi in difficoltà apprendendo una lingua che oltre a due generi ne aggiungerebbe un terzo, appunto, neutrale) ma lo scritto non è da ignorare , sperando che l'argomento non sia il classico fuoco di paglia
-
I primi tre capitoli sono ben fatti. Le spiegazioni sono chiare e ben spiegate. Ma quando nel quarto e quinto capitolo inizia ad introdurre la sua opinione, lo fa con sentimentalismo, senza rimanere razionale ed esplicativo. Le motivazioni per lui diventano evidenti, ma a me sono risultate inconsistenti. Comunque mantiene la professionalità ogni volta che introduce il concetto di cui poi vuole esprimere la sua opinione. Per esempio. Lui vuole dimostrare che una persona non-binaria potrebbe non volerlo dichiarare, ma allo stesso tempo dimostra senza accorgersene che usare il maschile o il femminile è una dichiarazione di genere (e alla persona non-binary potrebbe far piacere non venire appellata con il genere sbagliato) È vero. È complicato l'uso, non ancora normato, e si, rende la nostra lingua più difficile. Ma semmai, meglio proporre una soluzione a queste difficoltà. Lui afferma invece che è inutile perché bisogna che cambi prima il popolo. Rimane interessante, ma le sue opinioni non sono costruttive, quindi, a mio avviso, diventa inutile.
-
“Inutile dire che le dissimmetrie semantiche, manifestandosi sul piano dei significati, sono assai più importanti e radicate di quelle grammaticali, che agiscono quasi esclusivamente su quello dei significanti. Due anni di dibattito sul sesso degli schwa, tuttavia, dimostrano che le battaglie sui significanti sono molto piú popolari e facili da combattere di quelle sui significati. Per le prime, infatti, basta qualche rapida ritoccatina al codice; per le seconde bisogna andare a smontare l'intera impalcatura culturale del nostro pensiero, e ci vogliono generazioni. Non che il codice non abbia una sua importanza.”
-
Mah. Parte bene e passa a divagare, diciamo che su diverse cose sono d'accordo (così come lo sono con Vera Gheno, che per De Benedetti è palesemente una specie di mostro trinariciuto dai piedi caprini), ma il problema sono le argomentazioni, soprattutto gli esempi, che non convincono granché.
Lo consiglio a chi si sta facendo opinioni sul tema per ascoltare entrambe le campane, e per rendersi conto che come insegna l'armonia nessuna campana suonerà mai perfettamente intonata nemmeno con se stessa. -
Un buon saggio, pieno di idee che personalmente condivido e di spunti interessanti presentati sempre con modestia, con le pinze e con semplicità. Andrebbe letto sia dai detrattori dello schwa sia dai suoi sostenitori per quel che mi riguarda.
Da me condivisibilissime le linee dell'autore nel capitolo di introduzione
si propone [questo libro] di fornire una mappa alternativa per affrontare il problema. Ben sapendo che le mappe sono fatte per orientarsi, non per indicare un percorso -
Il fatto che il libro colga il segno sta nelle altre recensioni qui sotto. Tra i fanatici del “si-schwa” e gli ultraconservatori di pensiero opposto. Inutile lamentarsi che non dia soluzioni, non si è proposto di farlo in questo testo, inutile che cerchiate una piena giustificazione nella chiusura verso l’inclusività linguistica.
Imposta un discorso da linguista e viene accusato di non poterne parlare perché cis-etero bianco, code di paglia ne abbiamo? -
Un libro preciso e pacato su un argomento dove sembrava impossibile trovare pacatezza. Non è necessario essere d'accordo con le opinioni dell'autore - che personalmente condivido direi in toto, o quasi - per apprezzare la sua puntuale rassegna del passato recente che aiuta a capire come siamo arrivati ad alzare così tanto i toni quando si parla di linguaggio inclusivo.
-
Ottimi spunti di riflessione e tanti suggerimenti per approfondire l’argomento. Chi dice che da questo pamphlet emerge un’idea di lingua statistica o è in malafede o non ha capito nulla di ciò che ha letto.
-
In maniera chiara, essenziale e al tempo stesso convincente offre quello che bisogna sapere sulla questione dello schwa nella lingua italiana e perché va affrontata seriamente.
Adatto a tutti, utile a tutti. -
Al di là dei fenomeni di polarizzazione, esiste (ancora) il senso critico. Un piccolo saggio, lucido e di grande interesse. Da leggere.
-
Davvero ben argomentato! Mi ha decisamente convinta.
-
Lettura abbastanza interessante, che ho apprezzato più per la riflessione prettamente linguistica; meno convincenti, secondo me, le riflessioni su società / politicamente corretto e affini
-
3.5☆