Oggi e dopodomani. Discorsi di cinque sopravvissuti by Patrik Ouředník


Oggi e dopodomani. Discorsi di cinque sopravvissuti
Title : Oggi e dopodomani. Discorsi di cinque sopravvissuti
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ISBN : 8889987634
ISBN-10 : 9788889987636
Language : Italian
Format Type : Paperback
Number of Pages : 112
Publication : First published October 4, 2012

L’atteso ritorno nelle librerie italiane di uno dei massimi esponenti della grande letteratura contemporanea, apprezzato in tutto il mondo da critici e lettori per la sua scrittura brillante, capace di abbinare l’umorismo più tagliente a riflessioni profonde e mai banali.
Così Ourednik si cimenta con il tema chiave del nostro tempo, la fine del mondo, interrogando ed esorcizzando le paure e i desiderî di cinque personaggi, che sono come altrettanti piccoli universi giunti a una svolta decisiva, e regalandoci una nuova esperienza di lettura fuori dall’ordinario.


Oggi e dopodomani. Discorsi di cinque sopravvissuti Reviews


  • Catoblepa (Protomoderno)

    Il mondo finisce, così, d'emblèe, e gli ultimi cinque superstiti si ritrovano sul palco di un teatro a discutere sul loro futuro, che, va da sé, corrisponde al futuro dell'umanità tutta. Già, sul palco di un teatro: affinché la finzione ci sia sempre sotto gli occhi sono gli stessi personaggi a interpellare un pubblico che non dovrebbe esistere non perché c'è quel famoso muro a separarli (muro d'altronde già abbattuto da mo'), ma perché se loro son gli ultimi superstiti, che ci fa tutta quella gente a guardare?

    Ourednik, come di consueto, parte da un'idea stravagante e divertente per poi calarci nel funerale del consorzio umano. Lo faceva nel capolavoro assoluto Europeana, una brevissima e stringata anonima cronaca dell'anonima storia del XX secolo, beffarda e demolitrice come ben pochi libri io abbia mai avuto il piacere di leggere.
    Si ripete con questo Oggi e dopodomani, tragicommedia allucinata ma soprattutto abbondante (nel senso che ci dona abbondanza) riflessione su cosa vuol dire vivere nel mondo oggi, prima della catastrofe che verrà.

    I protagonisti, partiamo con ordine, sono nostri conterranei. Difficile capire perché uno scrittore ceco che vive in Francia abbia scelto proprio l'Italia per rappresentare l'ultima manifestazione di qualcosa che assomiglia alla società, ma per un italiano risulta quantomeno una decisione beffarda (e magari non è sfuggita neanche al signor Ourednik, che da profondo conoscitore della politica europea sa della disillusione costante di un popolo che non è impossibile da governare, ma inutile):
    SIGNORI - […] Se si vuole ragionare razionalmente, bisogna attenersi ai fatti. E i fatti ci dicono che qui, a parte noi, non c'è nessun altro. (Pausa) Non so cosa pensiate voi, ma, personalmente, provo un certo orgoglio quando mi dico che gli ultimi testimoni degli ultimi istanti del pianeta Terra sono quattro italiani. (Felice) I signori Andrea e Carlo, il signor Giovanni Rosati e il dottor Signori. Eppure, da un punto di vista puramente statistico, i cinesi (calcola) avevano ventidue volte più possibilità di noi. Gli indiani (calcola) diciotto volte. Gli americani… (calcola, mentre gli altri lo ascoltano interdetti) cinque volte. Quanto ai nostri amici tedeschi, che nei secoli ci hanno dato tanto filo di torcere… più o meno una volta e un quarto. Naturalmente se ci basiamo sul fatto che gli italiani erano cinquantaseimilionicentotrentatremilatrentanove all'ultimo censimento. Ma le statistiche sono una cosa e la resistenza di un popolo un'altra. Noi italiani siamo sopravvissuti a tutto. E la nostra presenza, qui, da un punto di vista simbolico è qualcosa di inaudito.
    GIOVANNI - (Si schiarisce la voce) A questo non siamo ancora sopravvissuti.
    SIGNORI - A beh… (gesto).


    Al di là di questo, è esilarante, nel colmo della tragedia, vedere come Ourednik radicalizzi un'idea in fondo non nuova. Sembra che nonostante la fine del mondo sia ancora fresca fresca e da interiorizzare con lenta masticazione, la paura più grande sia quella di una nuova apocalisse, perpetrata da un'umanità che ormai è scomparsa. Quantomeno, gli ultimi uomini rimasti si (e ci) conoscono bene. È spassoso, dal mio punto di vista, vedere come il classico tema letterario (in particolare postmoderno) dell'apocalisse imminente non possa essere spazzato via neanche da un'apocalisse appena avvenuta. Chissà, forse perché la prima fine è stata deludente, si cerca una replica migliore:
    Me n'ero fatto un'immagine più grandiosa (Pausa) Sole in agonia, cielo disseminato di meteoriti, masse in preda al panico, profeti con la barba lunga agli angoli delle strade, bambini in lacrime smarriti nelle città, stupro e fornicazione, violenza e depravazione, bestemmie e improperi a profusione dal baratro delle anime perdute. (Pausa) Insomma, qualcosa di più umano.

    E intanto quella che si va dipingendo è una tela in cui ogni viltà e prepotenza del presente vengono viste col distacco di chi non vuole più aver niente a che fare con la sua stessa storia, ipocritamente, ché anche i cinque sopravvissuti facevano parte di quell'associazione vile e prepotente chiamata umanità. Ourednik è un fatalista, ce ne si era già accorti in Europeana, e qui rincara la dose usando lo stesso stratagemma: si parla alla larga della società per criticare il singolo, si parla alla larga del singolo per criticare la società. Si scontrano, in sostanza, la pragmatica di un realismo devastante e le lugubri elucubrazioni sull'inizio e sulla fine della storia (ancora una volta, allo stesso modo si chiudeva Europeana). Alla fin fine, Ourednik ha la stessa pietà che avevano, ai loro tempi, Čechov, Canetti, Céline. Ovvero, non ha alcuna pietà.

    Questo moralmente, perché stilisticamente i maestri mi sembrano altri: Jarry:
    La mia materia preferita era l'ipotesologia. La scienza degli atteggiamenti appropriati a circostanze improbabili.

    Borges:
    Chiedo, e se fossimo già morti? (Indica il pubblico) Se semplicemente ci stessero sognando?

    Pirandello:
    In questa pièce qualcosa comincia a non andare. All'inizio era abbastanza divertente, ma adesso… E poi, questa scena che si rimpicciolisce… meno male che non si restringe anche la sala.

    Fino all'annichilamento definitivo dato dal gran finale, purtroppo irrealizzabile in teatro perché ci vorrebbe la collaborazione del pubblico tutto, e conoscendo le tipiche prime file impellicciate dei teatri d'Europa dubito che questo possa accadere. Ma tanto mi piacerebbe vedere la faccia di una dama in ermellino di fronte alla sua personalissima fine del mondo.

    E nel frattempo vengono in mente le parole di Andrea Zanzotto quando diceva:
    "Sembra solo, l'umanità, un'insignificante muffetta che appena sopra lo zero (273) ha attecchito sulla terra, essendosi poi anche rivelata velenosa a sé e a tutto. Ma sono già troppe le parole per dire questo concetto. E il mondo dei concetti come fa a convivere con questa muffa, anzi a essere secreto dalla muffa stessa?"

    Prima Europeana e adesso questo. Se qualcuno vuole venire a contatto con una delle menti più fervide ed esplosive oggi in circolazione non esiti a salire sul carrozzone Ourednik.

  • Andrea

    “Sia detto tra noi, per essere una fine del mondo, il quadro generale è piuttosto squallido. […] Me n'ero fatto un'immagine più grandiosa. Sole in agonia, cielo disseminato di meteoriti, masse in preda al panico, profeti con la barba lunga agli angoli delle strade, bambini in lacrime smarriti nelle città, stupro e fornicazione, violenza e depravazione, bestemmie e improperi a profusione dal baratro delle anime perdute. Insomma, qualcosa di più umano” (pagine 31-32).

    “Forse moriremo di fame. Oppure di sfinimento. Forse un diluvio sommergerà la casa. Forse saremo attaccati da insetti venuti da un pianeta sconosciuto, che ci succhieranno il midollo. Forse saremo mangiati vivi dalle formiche. Forse qualcuno verrà ad ammazzarci. Forse ci ammazzeremo tra noi. Forse vivremo ancora per molti anni e moriremo di cancro. L'unica grazia che Dio ci ha fatto, ammesso che esista, è averci nascosto il modo in cui moriremo. Averci fornito di immaginazione, in compenso, non è stato particolarmente caritatevole” (pagina 53).

    “Moriremo tutti qui senza neppure sapere perché. Non c'è nulla di così tragico in questo. Lei sa dirmi perché siamo nati? Vede bene. Nulla prima della vita, nulla dopo la morte. Qualcosa tra due nulla. E vale forse tutta la pena che ci diamo finché dura, e tutti quei lamenti quando finisce?” (pagina 73).

    “Siamo consapevoli del fatto che tutto avrà fine, un giorno […]. La morte è uno sbocco illogico della vita. […] La vita è una stupidaggine” (pagina 85).

    “Amico mio, non disprezzi la filosofia. Ci permette di intravedere la verità. E noi precisamente stiamo vivendo un istante in cui lo spirito umano raggiunge la verità, ovvero il disincanto” (pagina 92).

    “Chiedo, e se fossimo già morti? Se semplicemente ci stessero sognando?” (pagina 93).

    Il mondo finisce, e del mondo rimane soltanto una squallida e spartana stanza che si restringe progressivamente; l'umanità superstite conta solamente cinque individui, di cui quattro italiani; il loro futuro è incerto, ma il loro futuro è il futuro dell'umanità tutta. I cinque sanno che la stanza in cui si trovano è in realtà il palcoscenico di un teatro, vedono davanti a loro un pubblico ma poco importa, quelli non sono gli ultimi sopravvissuti, loro semplicemente assistono alle vicissitudini degli ultimi cinque sopravvissuti. È una situazione paradossale, ma l'unica preoccupazione di questi superstiti sembra essere, dopo essere scampati a questa freschissima fine del mondo, la sopravvivenza alla prossima, imminente apocalisse. In che modalità avverrà? Sarà deludente, incompleta e scialba come quella appena avvenuta? Oppure ci sbalordirà tra catastrofi grandiose e scenari mozzafiato? E non è forse ironico come la paura più grande dell'umanità, quella di aver condotto un'esistenza inutile, un'esistenza che conduce alla morte e all'estinzione definitiva della specie, sopravviva alla stessa umanità?

    Anche nelle sue altre opere, sia precedenti che successive a questa, Ourednik affronta il tema, molto postmoderno ed inflazionato, della fine della storia (“Europeana”) e della fine del mondo (“La fine del mondo sembra non sia arrivata”). In “Oggi e dopodomani”, dramma tragicomico in quattro scene ed un epilogo, l'autore ceco rincara la dose escatologica e ci parla anche della fine dell'umanità. La fine, secondo Ourednik, non è mai eclatante e palese come lo svolgimento, passa inosservata mentre tutti noi attendiamo che arrivi, e quando arriva, se arriva, non ce ne accorgiamo. È troppo tardi quando, delusi, ne chiediamo e ci prepariamo ad una sua replica. E nel mentre, ci preoccupiamo di aver fatto colazione.

    L'autore ceco dimostra ancora una volta una scrittura brillante, ironica e spiazzante, piena di disincanto nichilista, capace di abbinare l'umorismo più caustico e spietato a riflessioni filosofiche profonde e, benché camuffate da considerazioni spicciole, per niente banali. Ourednik si cimenta con il tema chiave del nostro tempo, la fine del mondo, interrogando ed esorcizzando le paure e i desideri di cinque personaggi giunti a una svolta decisiva per l'umanità, e che forse rappresentano essi stessi l'ultimo residuo di umanità.

    In quest'opera teatrale irresistibile si possono notare molte influenze stilistiche, dalla patafisica di Jarry (l'ipotesologia, scienza degli atteggiamenti appropriati a circostanze improbabili, potrebbe benissimo essere una sua disciplina collaterale) alle apocalittiche visioni de “Gli ultimi giorni dell'umanità” di Kraus, dal metateatro (teatro nel teatro) di Pirandello (pirandelliano è infatti l'abbattimento della quarta parete, quella che separa gli attori dagli spettatori) al teatro dell'assurdo di Beckett. Ma Ourednik, che è figlio di una visione postmoderna, non si limita all'imitazione dei suoi modelli, e spinge agli estremi la sensazione di trovarci all'interno di un sogno lucido, di un'allucinazione grottesca, di uno scenario onirico e surreale, di un incubo senza uscita, di un assurdo universo dove spettatori e attori si confondono e diventano una cosa sola, fino allo straordinario, coinvolgente, inquietante e disturbante epilogo. Un'opera geniale di uno scrittore formidabile ed incontenibile, unico ed inimitabile, una rappresentazione cinica e satirica altamente fedele alla realtà, che non solo abbatte il muro tra palcoscenico e sala, ma anche tra teatro e mondo.

  • Maurizio Manco

    “... detto tra noi, per essere una fine del mondo, il quadro generale è piuttosto squallido. […] Me n'ero fatto un'immagine più grandiosa. Sole in agonia, cielo disseminato di meteoriti, masse in panico, profeti con la barba lunga agli angoli delle strade, bambini in lacrime smarriti nelle città, stupro e fornicazione, violenza e depravazione, bestemmie e improperi a profusione dal baratro delle anime perdute. Insomma, qualcosa di più umano.” (pp. 31, 32)

    “La fine del mondo, è come la fine di un film in tv. Vedi scorrere i titoli di coda, spegni il televisore, e ti dici: «Era una merda, ma forse il prossimo sarà meglio».” (p. 40)

    “L'unica grazia che Dio ci ha fatto, ammesso che esista, è averci nascosto il modo in cui moriremo. Averci fornito di immaginazione, in compenso, non è stato particolarmente caritatevole.” (p. 53)